Nell’autunno del 1977, l’Atari 2600 fece la sua comparsa, portando con sé una rivoluzione nel mondo del gaming domestico. Questa macchina non solo catturò l’immaginazione dei più giovani ma riuscì anche a stregare gli adulti, come mia nonna, che si ritrovò affascinata dal giallo vivace e dall’inconfondibile suono di “Pac-Man”. Le sue sessioni di gioco erano un rituale, un ponte generazionale che univa nonna e nipote attraverso il linguaggio universale dei videogiochi.
Cinque anni più tardi, nel 1982, il Commodore 64 entrò prepotentemente nelle nostre vite. Questo computer, con il suo datassette, sembrava un artefatto venuto dal futuro, soprattutto se paragonato al mio amato Atari. Le riviste in edicola si trasformarono in vetrine di questa nuova era, offrendo cassette piene di giochi che erano ben più di semplici intrattenimenti: erano inviti a vivere storie interattive.
“The Last Ninja” fu uno di quei giochi che mi proiettò in mondi lontani e affascinanti. Ma il vero incanto era il modo in cui il Commodore riusciva a unire la famiglia intorno a questa nuova magia digitale, proprio come l’Atari aveva fatto anni prima con mia nonna. Ogni gioco caricato era una finestra aperta su paesaggi inesplorati e avventure emozionanti, una promessa di scoperte che teneva incollati allo schermo, unendo passato e presente in un’esperienza condivisa che trascendeva l’età e il tempo.