Passando tra le dita alcune vecchie fotografie consumate dal tempo, i ricordi di quei primi anni ’90 a Milano mi travolgono con un’ondata di tenerezza. Ero poco più che un ragazzino, avevo circa diciassette anni, con un paio di bacchette consumate nei jeans e tanta voglia di imparare. Il viaggio iniziò al Free Sound di Via Washington nella mia Milano. Sale grezze ma incredibilmente accoglienti. Ricordo l’odore di legno antico e moquette usurata al limite, misto al profumo inebriante della libertà musicale. Ricordo le prime batterie sulle quali applicavo uno stile ancora molto acerbo e basilare, in particolare mi torna alla mente un kit rifinito in argento metallizzato specchiato che risultava assolutamente molto glam rock. Il proprietario delle sale, che si diceva che un tempo fossero una casa di tolleranza, era una persona simpatica e gradevole ma molto determinata, ci accolse sempre come fossimo delle star. “Ragazzi,” ci disse la prima volta, “qui potete fare tutto il casino che volete. Basta che lo facciate bene!” La frase ci rimase molto impressa e tentammo di prenderlo alla lettera. Le pareti del Free Sound erano testimoni silenziose (o forse non troppo silenziose) dei nostri primi tentativi di creare qualcosa, quasi sempre qualche cover scalcinata, ovviamente ancora nessun brano nostro. Fu lì che imparammo le basi del suonare insieme, condividere entusiasmo grezzo ed evasione, pensandoci oggi, era una sensazione magica. Non eravamo bravi, ma eravamo felici e il Free Sound era il terreno fertile di cui avevamo bisogno. Fu un momento assolutamente formativo. Con il passare degli anni, la nostra passione ci portò a sperimentare nuove sale. Fu allora che scoprimmo il Jungle Sound Station di recente costruzione. Entrare lì per la prima volta fu come passare dalle serie minori alla Serie A.
Il Jungle era un altro pianeta. Sale insonorizzate professionalmente, attrezzature professionali, arredi molto curati, e un’acustica magica che faceva sembrare tutto più serio. Ricordo la prima volta che colpii la cassa della batteria in una di quelle sale, forse la A: il suono era così potente, chiaro e bilanciato che quasi mi spaventai.
I ragazzi del Jungle erano sempre gentili e pronti a soddisfare qualsiasi richiesta, soprattutto negli anni successivi dove i nostri evidenti miglioramenti, prevedevano scelte più elaborate in fatto di amplificazione e strumentazione.
Fu al Jungle che sicuramente provammo a prenderci veramente sul serio. Le nostre serate in sala si trasformarono in sessioni strutturate. Imparammo l’importanza della dinamica, del lasciare spazio ad ogni strumento e del rispetto reciproco all’interno di una band.
Le lunghe ore al Jungle furono intense, a volte frustranti, ma sempre illuminanti. Fu lì che registrammo il nostro primo demo decente che per noi fu una gioia immensa.
Negli anni successivi scoprimmo il Malibu Studio. Se il Jungle era stata la nostra palestra musicale, il Malibu diventò il nostro parco giochi creativo.
L’atmosfera al Malibu era completamente diversa, quasi casalinga. Il proprietario aveva creato un ambiente che incoraggiava la sperimentazione. “Qui non si sbaglia,” diceva sempre, “si esplora.” Fu in quelle sale che cominciai ad avvicinarmi ad altri generi, in special modo al funk.
Fu al Malibu che osammo di più. Mescolammo generi, sperimentammo tanto. Non tutto funzionava, certo, ma la libertà di poter provare, fallire e riprovare era inebriante e galvanizzante.
Ricordo una session particolarmente memorabile al Malibu. Stavamo lavorando su un pezzo che mescolava hard rock, funk e reggae. A un certo punto, frustrato da un ritmo che non riuscivo proprio a incastrare, lanciai le bacchette per aria con aria abbattuta. L’addetto alle sale, probabilmente anche lui appassionato di percussioni, entrò con un paio di bonghi. “Prova con questi,” disse con un sorriso. Quel gesto non solo sbloccò la canzone, ma aprì le nostre menti a nuove possibilità ritmiche.
Ora, seduto a casa con le foto di quei giorni sparse sul letto, mi rendo conto di quanto quel viaggio attraverso le sale prove di Milano abbia plasmato non solo la nostra musica, ma anche noi come persone.
Dal Free Sound imparammo l’importanza di fare attività insieme, la magia della musica e della pura gioia di suonare. Il Jungle ci insegnò la disciplina e la tecnica necessarie per elevare la nostra tecnica personale e il Malibu ci mostrò che nella musica, come nella vita, le regole sono ogni tanto fatte per essere piegate, se non infrante del tutto.
Non siamo mai diventati le rockstar che sognavamo di essere ma guardando indietro, mi rendo conto che forse non era quello il punto. Il vero viaggio era nella musica stessa, nell’esperienza di vivere qualcosa di intimo insieme.
Quelle sale prove, ognuna con la propria personalità e le proprie lezioni, furono le tappe di un viaggio che ci ha fatto crescere tanto. Che bel periodo…