David Geffen non era il tipo da scommettere sui perdenti. Nel 1984, seduto nel suo ufficio di Sunset Boulevard, fissò una pila di ritagli di giornale che parlavano degli Aerosmith. Titoli impietosi raccontavano di concerti cancellati, dipendenze e una band che sembrava destinata a diventare l’ennesima nota a piè di pagina nella storia del rock. Eppure, Geffen vide qualcosa che gli altri non notarono. “Non stiamo solo firmando una band,” disse ai suoi executives durante una riunione strategica. “Stiamo acquisendo un marchio dormiente che ha ancora un potenziale enorme. Ne sono certo.” Il suo piano fu audace: non volle solo un altro gruppo rock nel suo roster, volle orchestrare il più grande comeback nella storia della musica. John Kalodner, il leggendario A&R che aveva già lavorato miracoli con band come Foreigner e Asia, fu incaricato della missione. La sua prima mossa fu brutalmente onesta: “Ho detto a Steven e Joe che avevano due opzioni,” ricorda Kalodner. “Potevano continuare a essere una tribute band di se stessi, suonando nei club per sempre, oppure potevano reinventarsi per gli anni ’80. Ma la seconda opzione richiese un cambiamento radicale.” La Geffen non si limitò a offrire un contratto discografico, mise in piedi un vero e proprio programma di riabilitazione professionale. Manager, produttori, consulenti d’immagine: un’intera squadra fu assemblata per ricostruire gli Aerosmith dalle fondamenta. L’etichetta arrivò persino a finanziare la riabilitazione di Tyler e Perry, vedendola come un investimento necessario. “Done with Mirrors” del 1985 fu un test sul campo. La Geffen lo usò per capire cosa funzionava e cosa no. Le vendite furono tiepide, ma fornirono dati preziosi. Il pubblico voleva gli Aerosmith, ma desiderava qualcosa in più.
Oltre alla brillante intuizione di una collaborazione tra Aerosmith e Run DMC con il singolo “Walk this way” dove si unirono rap e hard rock, la svolta arrivò quando la Geffen decise di fare qualcosa di controverso e aprì le porte a songwriters esterni. Per una band orgogliosa come gli Aerosmith, fu una pillola amara da ingoiare. Desmond Child, Jim Vallance e Holly Knight portarono quella scintilla pop che mancava. “Dude (Looks Like a Lady)” e “Angel” divennero hit impressionanti.
“Permanent Vacation” fu il risultato di questa strategia ibrida. La Geffen orchestrò ogni dettaglio: dal sound più pulito e radiofonico, ai video patinati per MTV, fino alle collaborazioni strategiche. Il risultato fu un album che suonava come gli Aerosmith d’annata ma parlava il linguaggio sonoro degli anni ’80.
Con “Pump”, l’etichetta alzò ulteriormente la posta. Budget massicci per i video, campagne promozionali innovative, persino partnership con brand emergenti. Gli Aerosmith non furono più solamente una band, divennero qualcosa di molto, molto più grande.
“Get a Grip” rappresentò l’apice di questa visione. La Geffen aveva creato una macchina perfetta: ogni singolo fu un evento, ogni video un piccolo film, ogni tour un fenomeno sold-out. La trilogia di video con Alicia Silverstone non fu un caso: era marketing generazionale studiato al millimetro.
Quando “Nine Lives” uscì nel 1997, la missione era compiuta. Gli Aerosmith divennero più grandi di quanto fossero mai stati. David Geffen ed il suo gruppo di lavoro trasformò una band in declino in un impero del rock, creando un modello di business che viene analizzato ancora oggi.
La vera genialità fu capire che il comeback degli Aerosmith non sarebbe stato solo musicale, ma culturale. Non bastò far tornare la band in classifica: doveva nascere un meccanismo per imprimerli fortemente nelle nuove generazioni.
Come disse David Geffen anni dopo: “Il talento è essenziale, ma è la visione a creare una buona band in una leggenda.”